Dannata lucida rassegnata depressione. Maledetto dolore mascherato, celato dietro una fissità divenuta prigione ormai, negazione di umana dignità.
Solitudine evidente e spegnimento emotivo indotto.
Altro che cura: quale recupero, mi chiedo, quale recupero se siamo giunti a questo?
Ottimizzare i costi semmai, liberare posti letto, rendere inoffensivo, esorcizzare il mostro, reso tale solo dalle dicerie che aleggiano sulle bocche bigotte degli ignoranti.
E di storie ne son girate varie; solo la verità invece è rimasta un po’ indietro.
Nell’osservare la tua foto sull’epigrafe si agita dentro una sensazione di rabbia furente, di tragico sconforto.
E poi domande, Dio santo quante domande.
Non si sormontano affatto le immagini che serbo nella memoria e nel cuore con quelle del presente più recente.
E per te, che ogni giorno ti rivedevi riflesso nello sguardo di chi ti era accanto, che scorgevi ovunque solo i cocci di ciò che eri stato solamente qualche mese fa, doveva essere atroce.
Insopportabile devastazione quotidiana. Nemmeno immaginabile. Sentirsi cambiato, vedersi rallentato, distante dagli affetti che conoscevi, alieno da te stesso.
E la chiamano cura, poi.
Sembrava ci fosse speranza, però; una luce, uno spiraglio, non so come definirla. Confortante notare miglioramenti e qualche progresso, ci si sperava insomma che tutto sfumasse nel ricordo e che il futuro a venire fosse come quello dei film, dove il lieto fine rasserena e riunisce tutti nel sole.
Ci speravamo, ecco.
O, forse, ci illudevamo.
Ma non te ne faccio una colpa, capiamoci. Soltanto, è stato un colpo inaspettato, un vero-falso troppo repentino, da lasciare increduli e attoniti.
Quella scelta, l’ultima, non è facile da mandare giù.
E’ una prospettiva che atterrisce anche l’animo più saldo.
Chissà qual è stata la molla, l’ultima goccia, quella che ti ha spinto all’estremo.
Il luogo, l’orario, la corda e tutto scompare per sempre, un salto nel vuoto, dolore soffocato e cessa ogni cosa.
Silenzio e pace.
Eppure rimane ancora quel senso di desolante impotenza, e spettri di domande senza risposta.
Addio, nemmeno questo, neanche il tempo per stringersi la mano e salutarci come si deve.
Per accettare quel che hai voluto per la tua vita.
L’ultimo saluto io e te l’abbiamo scambiato quel lunedì, neanche dieci giorni prima della fine. Pugno alto, avambraccio che appende, pugno medio, avambraccio che devia, pugno basso, avambraccio che schiaccia e poi tecniche di palmo, mosse, sequenze, passi e contromosse in coppia.
Infine l’inchino, un saluto amichevole, qualche commento strascicato e forse un po’ forzato. Piuttosto normale. Adesso invece mi domando se davvero ti vedessi, se davvero ho fatto tutto quello che potevo, se ascoltavo veramente.
Compassione: la pratico veramente o pronuncio solo una parola senza senso ogni volta che, a fine allenamento, enunciamo le virtù che ci hai insegnato?
Forse invece mi illudevo, come gli altri, che quel marzo maledetto fosse ormai tramontato per sempre, l’origine di ogni distaccato delirio, di ogni frattura, di tutte quelle stupide voci che la gente ignorante diffonde. Ma nessuno - ah lo so bene - indagherà più a fondo, magari puntando il dito contro chi produce medicinali letali, contro chi prescrive il suicidio in comode dosi di psicofarmaci spegnenti, contro le regole ipocrite di una sanità sempre più allo sbando.
Ognuno poi la distilla da sé la verità.
Rimane però quel vuoto dentro, quel dolore sospeso, quella voglia di negare un presente che doveva essere diverso. Per te, per la tua famiglia, per tutti coloro che ti hanno conosciuto e voluto bene. Eravamo tanti oggi in chiesa, in molti per salutarti l’ultima volta.
Mi spiace tanto, mi spiace troppo, sai.
Non era così che doveva andare, non è così che dovrebbe finire la vita di un uomo, di un padre, di un figlio, di un marito, di un amico.
Perché è una soluzione vigliacca il suicidio.
Per tutti, intendo.
Per chi la subisce è una notizia che lascia immobile e attonito. Non la focalizzo nemmeno, non saprei neanche scegliere un’immagine - un secchio d’acqua gelata nella calura d’agosto? Un disco che si blocca per sempre? Una scossa ad alto voltaggio? -, davvero, non saprei.
Ma non è tanto questo a lasciarmi interdetto.
Nemmeno il riverbero delle emozioni che, incredule, turbano e smuovono dentro.
Sono le domande, come onde, a tempestare la scogliera della ragione, logorandola, urtandola, scavandola. Dev’esserci un motivo, un movente, un assassino, qualcuno, qualcosa.
Deve!
Non lo si accetta facilmente un suicidio.
Un incidente, una malattia, un baratro, un omicidio, una belva, qualunque cosa, fatalità ma non la volontà di linciare se stessi.
Sono troppe le inquietudini e le incertezze che si alzano in volo, confondono, quasi celano il dolore provato.
E’ come grandine sull’anima, percosse dentro, e nessuna risposta.
Silenzio, solo silenzio e sbigottita sofferenza.
E ancora rabbia.
E’ una soluzione vigliacca il suicidio, perché ti taglia fuori, ti lascia impotente sulla soglia del reale, ad una prospettiva così ferocemente lucida, voluta, cercata. La fine di un vuoto che mai si potrà comprendere.
Una negazione, una bestemmia dell’essere che distrugge la memoria di te.
Che cosa resterà ora?
Quale ricordo sopravvivrà adesso?
Non certamente soltanto questo. Lo dicono tutti - o no? - che non è mai l’ultimo istante, ma il percorso che va ricordato. Sono le tappe, il cammino percorso nel tempo, le cadute, i successi, le parole, i silenzi.
La vita.
Ricordo ad esempio quelle volte che correggevi le mie posizioni o che, pazientemente, ripetevi passaggi e movenze delle forme di Kung Fu.
Oppure i movimenti lenti a Tai Chi, energizzanti, armoniosi, nel silenzio del lunedì.
Ma ricordo anche quelle sere in cui arrivavo distrutto ancor prima di cominciare l’allenamento e tu invece pianificavi potenziamento, slanci ed esercizi alla spalliera. O quando mi hai portato allo stage a Voghera; più comodo invece quello organizzato qui a Camposampiero, nella tua scuola. E dove sono adesso quelle riflessioni a tutto tondo, quei discorsi sul senso della vita, sulla musica, sui monaci Shaolin ad Abano Terme, sulla spiritualità, sull’essere invisibili, sul senso della arti marziali e su come tutti gli sport siano, in realtà, arti marziali, su come la scienza non spieghi tutto? Quasi rimpiango Acronis, che mi hai nominato più e più volte da usare nel pc e che, ancora, non ho affatto sperimentato.
Il sito invece si è solo spostato un poco, ma resta lì, da sistemare e far crescere ancora.
Tante cose, ecco, piccole e banali, le prime che adesso mi vengono in mente. Generiche ma vitali, concrete e semplici assieme.
E adesso vedremo, vedremo cosa accadrà.
Ci mancherai, questo è certo.
Ma, come promesso oggi in chiesa, resteremo allievi tuoi e proseguiremo su quella strada e con quella passione che ci hai indicato tu.
29 novembre 2011
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