Regia: Nicolas Winding Refn
Anno: 2008
Genere: biografico
Cast: Tom Hardy, Kelly Adams, Katy Barker, Edward Bennett-Coles, June Bladon
La trama in breve:
Ostinatamente devoto alla violenza, Michael Peterson - in arte Charles Bronson - non riesce a tenere sotto controllo il suo egocentrismo. E così, dopo un'infanzia trascorsa tra le mura di una casa piena d'amore, il ragazzo cresce collezionando bravate di poco conto. Una volta diventato grande, muscoloso e forzuto, dopo l'ennesima prepotenza, viene rinchiuso per sette anni in carcere. Nella cella, tra una scazzottata al secondino e un morso ai colleghi più miserevoli, diventa il prigioniero più famoso d'Inghilterra: un carcerato eccentrico e sbiecamente intelligente che non ha mai ucciso nessuno ma vive da trent'anni in totale isolamento. (fonte mymovies)
Tempo fa ebbi l'occasione di vedere Drive, con Ryan Gosling, film di Refn che mi piacque assai e assai e in merito al quale dedicati un pochito di tempo nel cercare commenti e riferimenti all'omonimo romanzo cui era ispirato.
Pochi giorni dopo fu la volta del Dark Knight Rises di Chritopher Nolan, in cui tra l'altro si fece notare un certo Bane, villain impersonato da un pompatissimo Tom Hardy.
Ordunque, googlando un poco, trovai un comune punto di incontro tra questi elementi, ovvero Bronson, diretto da Refn e fondamentalmente confezionato attorno all'unico personaggio impersonato da Tom Hardy che, qui, si trova costretto a dar sfoggio di versatilità e capacità recitative anche se forse sarebbe stato più precisa la scelta di un attore più maturo e con gli occhi meno buoni.
Già perché Tom è sì talentuoso e capace, fisicamente pure prestante, ma un po' troppo giovane nell'aspetto.
Al di là di questo direi che il risultato complessivo è molto buono, con un film non monotono, che sa dimostrarsi originale e particolare, ritmato e con talune trovate di regia degne di nota che enfatizzano la potenza di talune sequenze o, al contrario, le rallentano rendendole eleganti e distaccate dal contesto "reale", quasi fossero sospese (ad esempio a quelle in cui c'è l'ambiguo Paul Daniels, impersonato da Matt King).
La storia proposta ruota attorno alla vita di Michael Peterson, e del suo alter ego "Charles Bronson", che risulta scomoda e dubbia in termini di messaggio veicolato agli spettatori.
Cercando un po' in internet noto che ci son state omissioni e gestioni discutibili nella caratterizzazione del personaggio - si è sorvolato sul suo secondo matrimonio, sulla temporanea conversione all'Islam, sull'interesse per il fitness e i libri scritti sull'argomento (ad esempio Solitary fitness) - tuttavia il montaggio permette di avere un quadro abbastanza completo della personalità del personaggio, decisamente inquieto, disadattato ed egocentrico, consapevole delle reazioni che riesce a suscitare e per questo baldanzoso e pericoloso.
Ne emerge una figura inquieta, in cerca di affermazione fisica ma al contempo dall'atteggiamento composto e, volendo, elegante. Mi riferisco ai momenti in cui non sta in cella ovviamente.
Di contro, i momenti in cui lo spettatore viene trascinato nel mondo interiore del protagonista, assistendo ai suoi monologhi-testimonianza oppure ad assistere ai siparietti in cui se ne sta in mostra, su di un palco, dinnanzi a un pubblico smanioso di applaudire alle sue bravate, lasciano invece emergere una personalità combattuta e frastagliata, smaniosa di attenzione, un po' folle forse ma traboccante di ego e di insofferenza.
E si dimostra bravo Hardy nel caratterizzare un tipo del genere, che un attimo prima se ne sta seduto in stato semi-catatonico su di una poltroncina e un secondo dopo sta strozzando un paziente della clinica in cui si trova, peggio ancora quando sequestra un bibliotecario o un educatore al solo scopo di preparare i presupposti per una rissa - cioè, lui contro agguerriti inservienti pronti a pestarlo di brutto - quasi fosse una sorta di gioco.
La regia si dimostra poi efficace nel bilanciare i momenti di tranquillità, quelli introspettivi e quelli di esplosiva fisicità.
Il tutto accompagnata da una discreta scelta musicale che permette di enfatizzare le situazioni proposte (e questa caratteristica del film mi ha riportato alla mente le atmosfere di Drive): penso ad esempio a "It's a sin" dei Pet Shop Boys a far da sottofondo alla ripresa dell'uomo "Bronson" che, seppur imbottito di psicofarmaci, comprende di dover architettare qualcosa per traslocare.
Già perché il simpatico ometto sembra esser stato uno dei più disperati casi di detenzione dell'intera storia carceraria inglese, avendo lui trascorso numerosi anni in isolamento ed essendo stato oggetto di incalcolabili trasferimenti.
Insomma, si è dimostrato un tipo che definire problematico sarebbe riduttivo ma che, di contro, ha permesso al popolo inglese di comprendere come vengono spesi i soldi dei contribuenti.
Il film fornisce poi qualche stimolo alla riflessione, sulla vita nel carcere, sul recupero delle persone detenute e sui trattamenti a cui questi sono sottoposti.
Non vengono forniti elementi, numeri o confronti particolari, semplicemente vengono enfatizzati gli elementi della violenza che, da un lato, divengono l'unica risposta che l'individuo riesce a esternare come reazione alla propria situazione di cattività e, dall'altro, l'unico mezzo per sedare l'irruenza (che talvolta può avere anche delle connotazioni creative e originali, stando a certe situazioni mostrate nel film) degli ospiti più ostici.
E credo sia un argomento abbastanza attuale visto che periodicamente anche nel nostro Paese emergono notizie di cronaca in merito a ragazzi morti in carcere o durante l'arresto (penso al caso Cucchi), se non in relazione al problema del sovra-affollamento e delle conseguenti amnistie-indulti per favorire la liberazione (o la non carcerazione) di chi si è macchiato di crimini minori. E a cui ogni governo continua a ricorrere senza considerare che, comunque la si voglia pensare, il carcere è l'ultimo passaggio di un processo.
Un altro aspetto che mi ha sorpreso del film è stato assistere alle attività di recupero previste per i detenuti, dove, tra le altre cose, anche la libera espressione artistica diventa valvola di sfogo per i carcerati. Non l'avevo mai pensata in questi termini ma, in effetti, è una cosa più che positiva cercare di far germogliare un po' di bellezza dalle mani di chi si è macchiato di brutture e azioni riprovevoli.
Come, appunto, il nostro Michael Peterson - Charles Bronson che, probabilmente, ha compiuto più aggressioni stando in prigione che rimanendosene in libertà.
E se consideriamo che comunque è riuscito a ottenere un po' di celebrità e che vive a sbafo della società, mi sa che non gli è andata neppure tanto male...
In un certo senso è divenuto prodotto "artistico" egli stesso, forse più prodotto commerciale a dire il vero, come ben rappresenta una delle sequenze finali in cui Bronson se ne sta a tu per tu con il Phil Danielson, utilizzandolo come base per una scultura vivente che lo rappresenti mentre lui si cosparge di inchiostro per farsi ombra e sparire, quasi in un tentativo di dissociare il marcio che alberga in lui dalla parte più creativa e normale, decisamente più difficile da intravedere.
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