Autore: Kenji Tokitsu
Editore: Luni Editrice
Genere: arti marziali, storia
Pagine: 154
La "trama" in breve:
Letteralmente, la parola giapponese "kata" significa "forma".
Tokitsu propone questa sintetica definizione del 'kata': 'sequenza composta da gesti formalizzati e codificati, sottesa da uno stato di spirito orientato verso la realizzazione della Via'. La nozione orientale tradizionale di 'forma', quindi, non è oggettiva, ma soggettiva, e coincide sostanzialemnte con la nozione di 'rito', nella sua accezione etimologica di azione giusta, gesto appropriato.
La nozione giapponese di 'forma' ha sempre posseduto la capacità di fare da cerniera tra essere e divenire, tecnica e spontaneità, stilema e percezione estetica, tradizione e modernizzazione, esteriorità sociale e interiorità 'privata'. (fonte macrolibrarsi)
Il mio commento:
Conclusa recentemente, questa lettura si è rivelata una piacevole esplorazione della cultura giapponese, non solamente nell'ambito delle arti marziali. Non si tratta indubbiamente di un testo né banale né di immediata fruizione, soprattutto per chi non è avvezzo al mondo del karate o, comunque, familiare con certe dinamiche tipiche della società nipponica.
Non che io sia un esperto, semmai un sapientino arrogante come mi è capitato di esser stato definito da qualcun altro parlando di "altri" argomenti, ma avendo maturato un minimo di conoscenza anche in ambito marziale (prima col karate Kyokushin al dojo di sensei Franco Rosso e ora con il Qi Xing Tang Lang Quan presso la Kyushinryu di Camposampiero) probabilmente un po' sono stato agevolato nella lettura del libro in questione.
Anche se, come appunto dicevo prima, in realtà l'aspetto del kata in senso di "forma di karate" è in realtà una chiave di lettura ma non l'unica.
Discorrendo di storia, sociologia e psicologia nipponica, l'autore ci porta infatti alla scoperta di quella che è la cultura giapponese, fortemente formalizzata e rigida, connotata da dinamiche talvolta rigorose e, per certi versi, irrazionali. Da non intendersi però nel senso di folli o insensate, bensì condizionate da un certo modo di percepire il presente e il rapporto con l'altro e con gli altri, siano essi propri familiari, appartenenti alla medesima classe sociale oppure a caste superiori.
Esaminando l'evoluzione storica della propria nazione, Tokitsu fa emergere aspetti culturali che, per noi occidentali (e fortemente americanizzati...), possono sfuggire come il confrontarsi con il pensiero della morte, l'omologazione a dinamiche di gruppo che prevedano una tacita condivisione di comunicazioni implicite e indirette, la gerarchia e la subordinazione tra classi sociali e, soprattutto, il rapporto e il confronto con la tradizione. Aspetti culturali e dinamiche che nella storia giapponese sono naturalmente maturate soprattutto a causa del forte senso di chiusura e isolazionismo che tale nazione ha sperimentato, in modo più o meno volontario.
Nel kata, quindi, sono molte le suggestioni e le spinte culturali che vengono a incontrarsi e a fondersi, non solamente i contributi di maestri e illustri antesignani di uno stile marziale.
Tra gli aspetti che più risultano "ostici" da accettare, e che l'autore non smette di citare, vi è il rapporto con la morte, con il pensiero che tutto può finire, che il tempo presente non è da considerarsi l' "unico" nel quale ci muoviamo o con il quale siamo in contatto.
Un retaggio della mentalità militare della classe dei guerrieri che tanto potere ha avuto in passato, così come una conseguenza di filosofie e religioni di matrice orientale che in Giappone costituiscono la base della cultura nazionale. Un peso che, però, non rappresenta meramente un cupo monito bensì diviene uno stimolo a perseguire obiettivi, così come a preservare e tramandare la propria cultura in un confronto ripetuto e quasi forzato con "chi ci ha preceduti", con il maestro, con la morte. E se consideriamo che oggi, nei vari stili marziali, vengono perpetuate tecniche e movenze ideate e codificate secoli fa c'è da stupirsi che tutto ciò avvenga quasi del tutto in virtù della "memoria del corpo" e della comunicazione non verbale, alla ricerca di una sublimazione, di una perfezione di esecuzione e di estetica che, forse, mai verrà raggiunta pienamente.
Per finire, lo stesso seppuku, meglio noto come harakiri, è da considerarsi un kata, ossia un rituale codificato di gesti e atteggiamenti che devono rispettare un certo codice e una certa formalità. Una forma estrema se vogliamo, ma pur sempre un kata - alla stregua dei modi omologati di vestire e di comportarsi degli impiegati o degli studenti.
Ora, sebbene tutto questo possa essere percepito come assurdo e inconcepibile per noi occidentali, soprattutto per noi italiani sempre così liberi e anticonformisti (ognuno di noi decide le proprie regole e i divieti da osservare o boicottare), credo che al concetto di forma noi si debba guardare con profondo rispetto e con una certa qual dose di spirito critico. Da noi, manco a dirlo, tutto questo rigore, così come la tacita volontà di sottostare e uniformarsi a certe regole collettive, non è esattamente così evidente: forse non l'abbiamo mai posseduto, rifiutandolo a vantaggio di una più comoda individualità e libertà.
D'altro canto, siamo anche una nazione che verso le arti marziali dimostra da sempre un atteggiamento ambiguo: per certi versi vengono equiparate a mode, ad attività ginniche per i bambini, a gesti che basta eseguire a casaccio eseguendo versacci... dall'altro c'è massimo rispetto per chi magari arriva a conquistare qualche medaglia alle Olimpiadi o a qualche competizione di livello internazionale, rispetto effimero se vogliamo, eppure relativamente riconosciuto (pensiamo alla scherma, ad esempio).
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